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LETTERE

hò mai havuto bene, che ’l dir io l’hò perduto. Ahi memoria congiurata à miei danni, hor perche mi rammenti le mie consolationi, in tempo, ch’esser non mi possono, che di tormento? non t’avvedi, che facendomi ricordare, com’io fui felice, non essendo più, il ricordarmi tal felicità mi fà esser doppiamente infelice? l’haver in mente i miei dì sereni accresce la doglia delle mie notti oscure. O dolcissima cagion del mio bene, ch’altro hora non sei che poca polvere, senza cui altro non son’io, che un tronco abbattuto dal fulmine, da qual felicità la tua morte m’ha tolto, e ’n qual miseria m’ha precipitato? (lasso) allhora che tu vivevi, niuno accidente per dispiacevole, ch’ei si fosse, poteva far, ch’io mi dolessi, perch’io mi conosceva accompagnato da così buona sorte, che sperando il tutto, nulla temeva, hora in pianto corverso temendo il tutto, nulla spero: ma che puoi temer hoggimai N. che sei fatto ricetto di tutte le avversità? che può temer un cuore che non può esser più misero di quel ch’egli è? che può temer uno, che non hà più che perdere? uno, che già disperato, ha disposto, e preparato l’animo ad ogni estremo male. O carissima Donna ohime, che la tua morte m’hà tolta ogni speranza, e m’ha lasciato ogni timore. Nel perderti hò perdut’ogni cosa, e temo grandemente di vivere. Il viver solo può far maggior la mia pena, attesoche mentre io giaccio sotto ’l gravissimo peso de’ martiri, e ch’io sopravivo à te, che fosti ogni mio bene, anzi sopravivo contra mia voglia à me stesso, il viver m’è proprio un flagello d’esser vissuto troppo. Poi


rivolto