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D’ISABELLA ANDREINI. 130

di civiltà quant’ha uno, che sia allevato ne’ boschi, egli (come si dice in proverbio) tanto conosce, e tanto apprezza la virtù, quanto fa l’asino il suon della lira. Costui non ha mai appresa cosa lodevole, costui non ha parte, che s’avvicini a mediocrità di gentilezza, non che a gentilezza, e perche in se non l’hà, li dispiace in altrui. Costui è d’ingegno rozo, di cuor vile, d’animo avaro, di costumi incivile, d’aspetto diforme (ma questo come hò detto vorrebbe dir nulla, che me la passerei) e finalmente di vitij, e d’ogn’altra cosa indegna, solo simile a se stesso: ma che occorre, che à Vostra Signoria ’l descriva se come me ’l conosce? sà, ch’i’ non posso dir tanto che non m’avanzi di dirne più, è meglio che in vece di parlar di lui, caldamente, e caramente la prieghi sicome io fò à dissuader mio padre da tanta ingiustitia. Fatelo Signora mia per quanto bramate la salute d’una, che svisceratissimamente v’ama. Sò, che mio padre, e mia madre vi voglion bene, e che v’hanno per quella giuditiosa, che veramente siete, onde con facilità s’acquetaranno alle vostre ragioni. Vi bacio le mani, & vi prego con tutto ’l cuore à soccorrermi.


Della deliberatione di non più amare.


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Or poiche mi bisogna estinguer la fiamma del mio amore (solo, e crudo rimedio ) con l’acqua del mio pianto, e che per levarmi l’amaritudine dall’anima convien, ch’io mi levi la dolcezza dal cuore, usci-


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