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D’ISABELLA ANDREINI. 124

ta savia; onde meco stesso dolendomi, io dicea. ò bella mano il cui candido avorio fa, che mille anime si pregiano d’esser tue prigioniere, quanto, quanto mi spiace d’haver disciolti quei cari nodi, co’ quali mi legasti, colpa della mia insofferenza, che tolerar non seppe quei soavi martiri, ch’amando i’ sostenni. O mal accorto accorgimento mio, poiche per dubbio delle spine lasciai le rose. Ah ben è vero, che ’l rigor della nemica mia stella ha voluto sempre senza pietà perseguitarmi, perche ogn’hor i miei giorni lagrimosi, & oscuri. Io, io privo di giuditio, per desiderio di farmi savio divenni pazzo, poiche pazzo è colui, che fugge il ben presente, per dubbio del mal, c’ha da venire. Doveva io per desiderio di viver di non lodevol vita, lasciar di morire di così degna morte? che maladetti siano gli insensati miei sensi, che malamente consigliando gli offesi spiriti estinsero il nobil fuoco dell’infiammata anima mia. Io, che ardendo era fatto chiaro lume d’amore ammorzando la mia bella fiamma non fu proprio un levarmi il giorno, ponendomi in oscurissima notte? dunqu’era meglio l’uccidermi, che ’l pormi in così caliginose tenebre: ma se ’l voler nostro può ciò, ch’ei vuole, io voglio di nuovo raccender nel mio petto quest’honorato fuoco quand’anch’i’ fossi certo, che ’l corpo ardendo in cenere dovesse convertirsi. Rimangasi pure il mio consiglio di consigliarmi in contrario, se non vuole, che sconsigliato ’l chiami, che troppo è soave il languir per così bella, e gratiosa donna. Fermisi la mia ragione di querelarsi, e di dolersi,


perch’io