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D’ISABELLA ANDREINI. 123

giorno di dover esser se non in tutto, almen in parte contento, & hora veggo, che ’n vece d’esser premiato del mio buon’operare vengo punito, come s’io havessi qualche grand’error commesso; e ’n tanti miei mali non sò vedere chi mi difenda, non che chi m’assicuri. Ohime, che à mezo giorno mi s’è fatt’oscura notte; con tutto ciò non voglio pentirmi d’haver operato bene, poich’è proprio di chi opera bene, il goder fra se stesso tacitamente, contentandosi di se medesimo, senza curarsi, ch’altri approvi, sappia, o dica il suo ben’operare. M’opprima la Fortuna, e mi persiguitino gli huomini, ch’io non voglio più tormentarmi, sperando che le ingiuste persecutioni un dì finiranno. Non sia vero, che la nebbia delle cose mortali habbia più forza d’offuscarmi l’intelletto, in ogni modo io conosco per isperienza, che le dolcezze di questo mondo son tutte piene d’amaritudine. Io sò certo, che quando mi disporrò di reputar felice quella Fortuna in che mi trovo (bench’ella sia al contrario) sarà nondimeno tal quale io me la formerò nella mente. O di quanto giovamento m’è stata la vostra lettera. Io in virtù di quella ho fatto fermo pensiero di non curarmi più di felicità di Fortuna: ma che parl’io di felicità di Fortuna? ella non può far felice alcun mortale. Chi da lei vien sublimato (che molti chiamano felicitato, o che tal accidente conosce, o nò;) Se non lo conosce non può esser felice, essendoche non può esser in alcun modo felice colui, che non ha conoscimento di felicità: e se l’ha è forza, che ancor conosca, che sì fatta felicità


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