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LETTERE |
mi parendo giusto, ch’altri sappia il mio sovverchio ardire, che boschi, antri, e luoghi remoti, sol da me eletti per fidi segretari de’ miei dolori. Con questi parlo, e piango sovvente; ma non havrei già baldanza di raccontar altrove le mie pene, temendo severamente d’esserne ripreso. Infelice me, poiche la cagione del mio tormento è tale, che non comporta, ch’io pur osi di sospirar allhora, che più aspre sento le mie amorose passioni. Convien (lasso) ch’io soffra dolor senza dolermi, & è maggiore il dolor, ch’io sopporto per non potermi dolere, che non è l’istesso dolor, che m’affligge: onde se le anime, che nella profonda tormentosa notte, vivono in continui martiri, possono dolersi della loro infelicità, veggo che sostengono minor pena della mia, poich’a me solo è tolto il poter disacerbar le amare angoscie, con le giuste querele: ma perche i’ non vorrei, che questo foglio imparasse dalla mia doglia a dolersi, e dolendosi a farvi palese quello, ch’io per debito di riverenza, ho caro che vi sia sempre occulto, chiudendo con chiave di tormento la porta del dolore, lascio alla lingua il silentio, & a gli occhi il pianto.
Simili.
Ellissima, e gentilissima Donna. Quanto son’io felice amandovi, poiche i vostri bellissimi lumi avvivano il fuoco, che dolcemente con ardor soave, & innestinguibil mi strugge. Dal vostro sereno, &
ange- |