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D’ISABELLA ANDREINI. | 61 |
più, che ne consoli? sarà pur forza, che siate senza luce, non meno al chiaro giorno, che all’oscura notte. Hora, che accidente ividioso m’ha rapita la mia speranza, che posso (misero me) più sperare? io non posso, e non voglio sperar alcuna sorte di contento, anzi da voi, dolcissima mia vita, lontano, desidero, che le mie pene si facciano così gravi, che sotto ’l peso loro, io cada finalmente morto, essendoch’io reputo men male il morire, che ’l viver da voi disgiunto. Hora infelice me, guidato dalla disperatione, vò cercando i luoghi più solitari, assordando l’aria d’ogn’intorno co’ miei gridi, e co’ miei lamenti. Ah, che se ’n tanta infelicità potessero questi occhi miei soccorrermi, di tante lagrime, che à bastanza i’ piangessi le mie miserie, sentirei pur alcun lieve conforto; ma le mie avversità son tali, che quando gli occhi stessi, in pianto si liquefacessero, non piangeriano tanto, quanto bisognerebbe. Dunque desideratissima Signora, mitigate gl’immensi miei dolori, con l’inviarmi pietosa, uno de’ vostri pensieri, accompagnato da duo soli versi, scritti da quella candida mano, che sola hebbe forza di piagarmi il cuore.
Dell’Ostinatione.
E voi siete l’anima mia, come veramente siete, e se da me vi partite, come dite di voler fare, è pur forza, che nel vostro partire io rimanga morto, poiche morte si chiama la divisione del corpo, e dell’ani-
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