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D’ISABELLA ANDREINI. 57

misero. Io non curo corversationi, non giuochi, non canti, non suoni, m’annoia il tacere, non m’è caro il parlare, odio ’l Mondo, fuggo le genti, disprezzo le ricchezze, maledico il mio nascimento, mi querelo della Fortuna, mi doglio delle stelle, e finalmente il piacer istesso mi dispiace; dunque non è maraviglia se per l’angoscia, che fiera continuamente mi lacera, non son più da propri amici riconosciuto, poiche i’ so tanto da quel, ch’esser soleva diverso, che intervien loro, come à chi nel tempo di Primavera vede un giardino ricco di fiori, che ritrovandolo ne i mesi del Verno spogliato d’ogni vaghezza, nol riconosce più, nè può crederlo quello, che prima fù con tanto suo piacere da lui veduto. Hor sia questo il trionfo della vostra alterezza, che quando avvenga, ch’io per colpa della vostra crudeltà, muoia, haverò pur nel fin della mia vita questo conforto, che la morte à chi ben ama, suol esser d’eterno honore.


Che il luogo non cangia pensiero.


I

O conosco, e confesso (bellissima Donna) d’esser indegno della gratia vostra: ma sicome ’l Sole più bello di tutti gli altri lumi del Cielo, non si sdegna di passar co’ suoi purissimi raggi, per le cose più vili della Terra, così voi non dovreste degnarvi di sparger in me i pietosi raggi della vostra gratia, che in quella guisa, che lo splendor del Sole, non riman’offeso dalla bassezza


P          della