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e del legittimo sovrano, passeggiavano colla fronte sicura per la più bella provincia della Italia e imponevano coi loro grossolani talenti agli spiriti più colti. Il tiranno era, dicea egli, determinato a conservare il Piceno1. Ma ciò non era in suo potere come il devastarlo. Numerose schiere di prodi avanzarono dal settentrione d'Italia, sbaragliarono le sue squadre, dissiparono con un soffio i suoi chimerici progetti, annientarono le sue speranze, distrussero dai fondamenti il barcollante edilìzio del suo potere. Pallidi, tremanti, cosi codardi nei pericoli come prodi nei furti, rincularono, fuggirono i miserabili ministri della sua tirannide, accompagnati dalle maledizioni dei popoli, volarono a cercare un asilo vicino ai lari che aveano traditi: il vincitore gl'incalza, eccita lo sdegno della nazione che risente i suoi diritti, occupa la capitale profanata dal nemico, insegue per ogni dove gli avanzi della schiacciata monarchia, ripone la corona sul capo dello sventurato principe legittimo, che torna ornai a travagliare alla felicità dei suoi popoli... Italiani! esultiamo! siam liberi! il dispotismo, il tiranno son confusi col nulla. Fumante del sangue dei popoli da lui usurpati, carico delle rapite sostanze degl'italiani, ebbro di fanatismo e trascinato dal genio di sedizione, questo nuovo Tilliboro2 avea osato chiamare gl'italiani a soccorrerlo, avea ardito proclamare la indipendenza dell'Italia. Sciagurato! Sarebbe questa conforme ai nostri interessi? Potrebbe l'Italia aver causa commune colla Francia? Italiani rigenerati all'entusiasmo e all'amor patrio, ascoltate.

Per muoverci a prender le armi onde ricuperare la indipendenza italiana, convenía persuaderci che questo fosse il momento opportuno di cercarla e che ciò non esponesse la Italia a gravi pericoli; che fosse possibile dopo considerabili sforzi di ottenere

  1. Si sa che egli se ne espresse chiaramente in un suo dispaccio al generale Carascosa risiedente in Ancona.
  2. Ladrone dell’Asia, di cui Arriano scrisse la vita. «Ed in vero, Arriano discepolo di Epitteto, uomo primario tra i romani e per tutta la vita esercitato nello studio delle lettere, avendo fatto non so che di simile a ciò che ora intraprendiamo, può rispondere in nostro favore. Egli infatti non ebbe a vile di scrivere la vita del ladrone Tilliboro». Luciano nel Pseudomantide.