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ix. agl'italiani 153

Una numerosa classe di bisognosi, tanto più degna di compassione quanto più imbelle, fornita, durante il governo di Buonaparte, di mezzi sufficienti alla propria sussistenza, al cominciare del nuovo ne fu priva, per modo che si vide ridotta alla necessità di mendicare il vitto. Le grida di questi infelici giunsero al trono del despota. Quell'anima di ferro sorrise ai loro lamenti e segnò il decreto che riduceva in beni immaginari quelli che essi avevano diritto di attendere per il loro sostentamento. La Francia, gravitando col suo immenso peso sopra di noi, ci costringeva a gemere in un silenzio impotente fra le catene; ma il nuovo tiranno, costringendoci all’obbedienza colle sue meschine forze, grandi solo in rispetto alla nostra debolezza, eccitava la nostra indignazione e ci facea mordere i lacci della schiavitù. Vi fu chi, più generoso, osò far conoscere che ei meritava una miglior sorte. Egli fu bandito dallo Stato da chi non ne aveva che la provvisoria amministrazione. Si chiamò male intenzionato chi fu assai fedele ai suoi doveri per non macchiarsi con l'adesione a un governo disleale; si trattò da fellone chi osò richiamare alla memoria con sentimenti di riconoscenza il padre del suo popolo; si posero in opera dei mezzi di rigore contro chi mostrossi inseparabile dall'attaccamento al suo sovrano legittimo. Allora ci avvedemmo che Napoleone era ancora sul trono per noi.

Italiani! E non precipitò l'oppressore dal suo soglio! Fu già detto che la cosa più rara è un tiranno che giunga alla decrepitezza1. Quel popolo che può dirlo con verità non avrà per lungo tempo dei tiranni. Ma, arrossisco in confessarlo, se falangi straniere non venivano in nostro soccorso, il tiranno invecchiava in mezzo a una folla di schiavi. Uomini indegni, impinguati nel disordine, anelanti alla rapina, vili e ributtanti nei pericoli, elevati ai supremi ranghi per aver saputo superare ogni sentimento di onore e aver traditi gl'interessi della patria

  1. Detto di Talete, il primo dei sette greci sapienti, ricordato da Plutarco nel libro sul Genio di Socrate e nel Convito dei sette sapienti, e dal Laerzio nella Vita di Talete stesso, libro I, segm. 36.