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AD ANGELO MAI. Se, fuor che di se stesso, altri non cura? Chi stolto non direbbe il tuo mortale Affanno anche oggidì, se il grande e il raro Ha nome di follia; Nè livor più, ma ben di lui più dura La noncuranza avviene ai sommi? o quale, Se più de’ carmi, il computar s’ ascolta, Ti appresterebbe il lauro un’ altra volta? Da le fino a quest’ora uoru non è sorto, O sventurato ingegno, Pari all’italo nome, altro eh’un solo, Solo di sua codarda etate indegno Allobrogo feroce, a cui dal polo Maschia virtù, non già da questa mia Stanca ed arida terra, Venne nel petto; onde privato, inerme, (Memorando ardimento) in su la scena Mosse guerra a’ tiranni: almen si dia Questa misera guerra E questo vano campo all’ ire inferme Del mondo. Ei primo e sol dentro all’ arena Scese, e nullo il seguì, che l’ozio e il brullo Silenzio or preme ai nostri innanzi a tutto. Disdegnando e fremendo, immacolata Trasse la vita intera, E morte lo scampò dal veder peggio. Vittorio mio, questa per te non era Età nè suolo. Altri anni ed altro seggio Conviene agli alti ingegni. Or di riposo Paghi viviamo, e scori i Da mediocrità: sceso il sapiente E salita è la turba a un sol confine, Che il mondo agguaglia. O scopritor famoso, Segui; risveglia i morti, Poi che dormono i vivi; arma le spente Lingue de’prischi eroi; tanto che in fine Questo secol di fango o vita agogni E sorga ad atti illustri, o si vergogni.