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280 DIALOGO DI FEDERICO ROYSCH Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non piuttosto il contrario. Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura dell’anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch’io dico; cioè nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione, un dolore vivissimo. Mono. Or bene, tu domanderai da nostra parte agli uni e agli altri : se l’uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali acuti e dolorosi, in sull’ appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore , sicché questo cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere a morir di dolore in punto di morte. Ruysch. Agli Epicurei forse potranno bastare cote- ste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della sostanza dell’ anima ; come ho fatto io per lo pas¬