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DI TORQUATO TASSO stro intimo, e ricade in maggior sonno di prima ; finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In fine, io mi maraviglio coinè il pensiero di una donna abbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l’anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che io non ho più speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta la facoltà di essere felice. Genio. Quale delle due cose stimi che sia più dolce : vedere la donna amata, o pensarne ? Tasso. Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea. Genio. Coleste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi. Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne ; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo ? Genio. Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto dio di ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un’ombra o una millesima parte della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E ancho mi pare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè a dir creature poco lodevoli e poco amabili ; non sappiate poi comprendere come accada, che le donne in fatti non sieno angeli. Tasso. Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio <li rivederla, e di riparlarle. Genio. Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo,