Pagina:Leopardi - Opere I, Le Monnier, Firenze 1845.djvu/204

166 DIALOGO D* ERCOLE E DI ATLANTE. Atlante. Bene, ma che modo? Ercole, lo gli farei toccare una buona picchiata di questa clava: ma dubito che lo finirei di schiacciare, e che io non ne facessi una cialda ; o che la crosta, atteso che riesce così leggero, non gli sia tanto assottigliata, che egli mi scricchioli sotto il colpo come un uovo. E anche non mi assicuro che gli uomini, che al tempo mio combattevano a corpo a corpo coi leoni e adesso colle pulci, non tramortiscano dalla percossa tutti in un tratto. 11 meglio sarà ch’io posi la clava e tu il pastrano, e facciamo insieme alla palla con questa sferuzza. Mi dispiace eh’ io non ho recato i bracciali o le racchette che adoperiamo Mercurio ed io per giocare in casa di Giove o nell’orto: ma le pugna basteranno. Aliante. Appunto; acciocché tuo padre, veduto il nostro giuoco e venutogli voglia di entrare in terzo, colla sua palla infocata ci precipiti tutti e due non so dove, come Fetonte nel Po. Ercole. Vero, se io fossi, come era Fetonte, figliuolo di un poeta, e non suo figliuolo proprio; e non fossi anche tale, che se i poeti popolarono le città col suono della lira, a me basta l’animo di spopolare il cielo e la terra a suono di clava. E la sua palla, con un calcio che le tirassi, io la farei schizzare di qui fino all’ultima soffitta del cielo empireo. Ma sta sicuro che quando anche mi venisse fantasia di sconficcare cinque o sei stelle per fare alle castelline, o di trarre al bersaglio con una cometa, come con una fromba, pigliandola per la coda, o pure di servirmi proprio del sole per fare il giuoco del disco, mio padre farebbe le viste di non vedere. Oltre che la nostra intenzione con questo giuoco è di far bene al mondo, e non come quella di Fetonte, che fu di mostrarsi leggero della persona alle Ore, che gli tennero il montatoio quando salì sul carro ;