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LA GINESTRA. Fatai, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto DelPostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volle, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall’ inesausto grembo Sull’arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l’acqua , Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l’usato Suo nido, e il picciol campo Che gli fu dalla fame unico schermo, , Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sopra quei si spiega. Torna al celeste raggio, Dopo 1’ antica obblivion, 1’ estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all’ aperto ; E dal deserto foro Diritto infra le file De’ mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Ch’ alla sparsa mina ancor minaccia. E nell’ orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi c per le rotte