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AL CONTE CABLO PEPOLI. Studio de’ carmi e di ritrar parlando II bel che raro e scarso e fuggitivo Appar nel mondo, e quel che, più benigna Di natura e del ciel, fecondamente A noi la vaga fantasia produce, E il nostro proprio error. Ben mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Cosi come solea nell’ età verde, In suo chiuso pensier natura ahbella, Morte, deserto avviva. A te conceda Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi li scalda, Di poesia canuto amante. Io lutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre intìno all’ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beliate o di natura o d’ arte, Fatta inanime e mula; ogni allo senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforlo allor mendico, Altri studj men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell’eterne cose; a che prodotta, 6*