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AI. CONTE CABLO PEPOLI. D’esser beali sospiraro indarno, Di medicina in loco apparecchiale Nella vila infelice avea natura Necessità diverse, a cui non senza Opra e pensier si provvedesse, e pieno, Poi che lieto non può, corresse il giorno All’ umana famiglia; onde agitato E confuso il desio, men loco avesse Al travagliarne il cor. Cosi de’ bruti La progenie infinita, a cui pur solo, Nè men vano che a noi, vive nel pelto Desio d’esser beati; a quello intenta Che a Ipr vila è mestier, di noi men tristo Condur si scopre e men gravoso il tempo, Nè la lentezza accagionar dell’ ore. Ma noi, che il viver nostro all’altrui mano Provveder commettiamo, una più grave Necessità, cui provveder non puote Altri che noi, già senza tedio e pena Non adempiam: necessitale, io dico, Di consumar la vila: improba, invilta Necessità, cui non tesoro accollo, Non di greggi dovizia, o pingui campi, Non aula puote e non purpureo manto Soltrar 1’ umana prole. Or s’allri, a sdegno I vóti anni prendendo, e la superna Luce odiando, l’omicida mano, I tardi fati a prevenir condotto, In se stesso non torce; al duro morso Della brama insanabile che invano Felicità richiede, esso da tutti Lati cercando, mille inefficaci Medicine procaccia, onde quell’ una Cui natura apprestò, mal si compensa. Lui delle vesti e delle chiome il cullo E degli atti e dei passi, e i vani studi Di cocchi e di cavalli, e le frequenti Sale, e le piazze romorose, e gli orli,