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più lunga fra due o tre anni.1 Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno, ἵνα τι καὶ δαιμόνιον ἔνθω τῶ πράγματι, ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, ché il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purché m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più, ma chicchessia è costretto2 a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima.3 Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e, quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e cosi potesse ella esser utile a qualche cosa, come io proccurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni cosi acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che potranno accadere a me, per le quali mi pare d’essere armato di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle infinite cose che mi offenderanno l’amor proprio, perché io sono risolutissimo e quasi certo che non m’inchinerò mai a persona del

  1. Ci fu anche un momento nel ’16, in cui egli credette di dover morire tra pochi giorni, quando cioè compose il «funereo canto» dell’Appressamento alla morte: effetto dell’eccessiva sua impressionabilità, lamentata dal padre e dallo zio C. Antici.
  2. Nella copia era «forzato».
  3. Cfr. La vita solitaria (vv. 17-20), Ultimo canto di Saffo (vv. 50-54), e altri luoghi.