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ANNO 1817 - LETTERA 68 115 intorno alle nostre cure Lettere belle, alle quali pensando di e notte, non ho persona a cui dirne una parola, quando tutti gli uomini naturalmente desiderano di parlare di quello che loro importa, e spesso, come io fo, disprezzano tutti gli altri discorsi. Credo che, se ci vedremo, io starò qualche giorno senza dirvi niente, per non sapere da che cominciare. Non sarà poco se vi darò spazio di mangiare e di dormire, che non v’assedi del continuo col mio favellare. Sto ora quanto posso coi trecentisti; innamorato di quello 1 scrivere, e non che comprenda, ma vedo e tocco con mano, che come lo stile latino trasportato in questa lingua non vi può star se non durissimo, e, come diciamo volgarmente, tutto d’un pezzo: cosi lo stile greco vi si allatta e piega, e vi sta cosi molle, cosi dolce, naturale, facile, svelto, che in somma sta nel luogo suo e par fatto a posta per questa lingua. Ecco qui un nembo e una furia di pensieri, che vi vorrei dire: li serbo per quando ci vedremo. Molto vi compatisco nelle vostre brighe e molestie. Cotesti sono quelli che i Greci chiamavano fW)x>v:. Spesso mi viene in bocca e mi piace assai questa parola ora che uno che io facessi, sarebbe l’ultimo. Se non che questo pure è un terribile <5?Moc d’ingoiarsi cosi i giorni e i mesi come fo io. Con qual parola italiana renderemmo questa greca? Travaglio ha il disgustoso, ma non il grande e il vasto. Non per tanto io non m’arrischio di affermare che questa parola non si possa rendore in italiano, tanto poco mi fido di conoscere questa nostra lingua sovrana immensa onnipotente. Mi dispiace che non abbiate ricevuta la mia sopra il Dionigi,2 solamente perché in essa, per mettere in chiaro la questione, recava certi confronti nuovi, che non vorrei che qualche straniero li mettesse fuori prima degl’Italiani; né anco che venissero in mente al Visconti, il quale sinceramente vi dico che io non amo niente affatto, perché mi paro che si sia scordato dell’Italia (a cui, lasciando stare che è sua patria, di che non è tenuto 3 un antiquario ’{), avendone abbandonato non solo la terra mu la lingua.4 Mi direte che scrive le cose in francese, perché tutti l’intendano. Rispondo che queste cose che hanno a essere Europee, non vanno scritte6 né in francese né in italiano (come facea il Visconti quando era in Italia) ma in latino, e ve n’addurrei molte prove: 1 Nollu copia ora «del loro»: Q. cori-èsse. 2 Mentre G. scriveva la presente, il Giordani già da alcuni giorni, il 27 luglio. aveva ricevuto la Dissertazione; come si ha dalla lett. 67. 3 Nella copia era: «che cosa non devo».

  • Questo periodo spiega la ragione della «fretta onde G. aveva allestito

la sua Lettera dionisinna (cfr. lett. 61. principio, e nota 2); affinché cioè i «confronti nuovi» ch’egli vi recava non fossero prima messi fuori da qualche straniero, e neanche dal Visconti. 8 Nella copia «non si debbono scrivere».