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100 EPISTOLARIO azioni cui la natura o gli uomini producono più vaghe e desiderabili: e quale consiglio o qual diletto crescere il numero o la durata delle cose moleste di che già troppo abbonda la terra? A me parrebbe c he l’ufficio delle belle arti sia d’imitare la natura nel verisimile. E come le massime astratte e generali che vagliono per J» pittura denno anche valere per la poesia, co3f, secondo la sua sentenza, Omero Virgilio e gli altri grandi avrebbero errato infinite volte; e Dante sopra tutti che ha figurato il brutto cosi sovente. Perocché le tempesto le morti e cento e mille calamità, che sono altro se non cose molesto anzi dolorosissime? E queste con innumerevoli pitture hanno moltiplicato e perpetuato i sommi poeti. E la tragedia sarebbe condannabile quasi intieramente di natura sua. Certamente le arti hanno da dilettare, ma chi può negare che il piagnere il palpitare l’inorridire alla lettura di un poeta non sia dilettoso? anzi chi 11011 sa che è dilettosi esimo? 1 Perché il diletto nasce appunto dalla maraviglia di vedere cosi bene imitata la natura, che ci paia vivo e presente quello che è o nulla o morto o lontano. Ond’ò che il bello, il quale veduto nella natura, vale a dire nella realtà, non ci diletta pili che tanto, veduto in poesia o in pittura, vale a dire in imagine, ci reca piacere infinito. E cosi il brutto imitato dall’arte, da questa imitazione piglia facoltà di dilettare. Se un uomo è di deformità incredibile, ritrar questa non sarebbe sano consiglio, l>enché vera, perché le arti debbono persuadere e far credere che il finto sia reale, e l’incredibile non si può far credere. Ma se la deformità è nel verisimile, a me pare che il vederla ritratta al naturale debba dilettare non poco. E già s’intende che sia nel luogo suo, perché se è fuor di luogo, come sarà nel quadro di cui Ella ragiona, non c’è pili da discorrere. Ho detto tutto questo per ubbidienza, e perché lilla impari a non comandarmi più di queste cose. E se ho usato parole ardito e non convenienti, Ella me ne riprenda, come è dovere.2 Io sapeva appuntino quanto Ella mi dice dei non idioti fiorentini e toscani, e lo sapea non solo per gli scritti loro, ma anco per altre cose. Facea conto però d’imparare dagli idioti, o piuttosto di rendermi famigliare col mezzo loro quella infinità di modi volgari che spessissimo stanno tanto bene nelle scritture, e quella proprietà ed efficacia che la plebe per natura sua conserva tanto mirabilmente nelle parole, pensando a Platone che dice il volgo essere stato ad Alcibiade, e dover essere, maestro del buon favellare, e alla donnicciuola ateniese che alla parlata conobbe Teofrasto per 1 Nella copia ora scritto «diletto.... dilettissimo». 2 Cfr. Zibaldone, pensieri di estetica; e l’articolo, cominciato o non finito, di G. sul Francucci da Imola del Giordani, da me pubblicato in Rassegna critica della htt. ital. (Napoli, voi. XXX, fase. 1-6 del gennaio-giuRno 1925).