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508. A Paolina Leopardi.
[Roma] 28 Gen. [1823]

Cara Paolina La tua lettera m’è stata molto gradita, come sempre mi saranno quelle che mi scriverai, ma mi dispiace pur molto di sentirti così travagliata dalla tua immaginazione. Non dico già dalla immaginazione, volendo inferire che tu abbi il torto, ma voglio intendere che di là vengono tutti i nostri mali, perchè infatti non v’è al mondo nè vero bene, nè vero male, umana- mente parlando, se non il dolore del corpo. Vorrei poterti con- solare, e proccurare la tua felicità a spese della mia; ma non potendo questo, ti assicuro almeno che tu hai in me un fratello che ti ama di cuore, che ti amerà sempre, che sente l’incomo- dità e l’affanno della tua situazione, che ti compatisce, che in somma viene a parte di tutte le cose tue. Dopo questo non ti ripeterò che la felicità umana è un sogno, che il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano; che il piacere è un nome, non una cosa; che la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono, non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni pos- sibili in questa vita; e che questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono nè si mettono a profitto, come sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole. Queste cose già le sai, e non solo le sai ma le credi; e nondimeno hai bisogno e desideri di vederle coll’esperienza tua propria; e questo desiderio ti rende infelice. Così accadeva a me, così accade e accaderà eternamente a tutti i giovani, così accade agli uomini ancora e agli stessi vec- chi, e così porta la natura. Vedi dunque quanto io sono lontano dal darti il torto. Ma io voglio che per amor mio tu facci qual- che sforzo, ti approfitti un poco della filosofia, proccuri di ral- legrarti alla meglio, come io so per lunga esperienza che si può fare anche nel tuo stato, niente meno che in qualunqu’altro.