Caro Carlo. Sono in piedi, e posso dir guarito, dopo due-
cent’ore giuste di letto. Rispondo, come ti promisi, all’ultime
tue. Non t’inganni a credere che le mie effusioni ec. vengano
più da politica che da altro fonte, benché non si può negare
che la lontananza ravviva in qualche modo le affezioni o sopite
o spente, prima perch’è lontananza, poi perchè l’uomo ha sem-
pre bisogno di qualcuno a cui creda d’interessare, e questo biso-
gno si sente in modo particolare quando si vive tra forestieri
ed alieni e per la maggior parte ignoti. Diedi poi conto a mio
padre del progetto di De Romanis per pura voglia di ciarlare
e d’empier la pagina, e perchè i° io non m’immaginava in al-
cun modo che mio padre fosse per concepirne quei sospetti che
n’ha conceputi, nè che dovesse temere il prolungamento della
mia assenza, quando, si può dire, colla sua bocca m’aveva sug-
gerito di proccurarmi qualche impiego da viver fuori di casa:
20 io era e sono ben lungi dal pensare quello che ha dato mo-
tivo alle inquietudini di mio padre, cioè che il ritratto di que-
st’impresa mi potesse bastare a mantenermi in Roma. Figura-
tevi voi che ricca entrata sarebbe quella di cinque o seicento
scudi in tutto, fra cinque o sei anni che ci bisognerebbero a ter-
minare un’opera immensa come quella. Cento scudi l’anno al
più, sarebbero pure una gran rendita. Di modo che io non ho
mai posto in quest’impresa nessuna delle mie speranze, e ne diedi
notizia a mio padre, come d’un nulla, e di questo nulla egli s’è
messo in angoscia, e m’ha scritto come voi vi figuravate. Vi rin-
grazio molto degli schiarimenti che mi déste in questo propo-
sito, i quali mi servirono di regola per la risposta. Del rimanente
siamo quasi restati d’accordo con De Romanis. Io però dubito
ancora, non mi sono legato, e risolverò con più comodo: per-
chè la fatica è grande, il profitto è piccolo, il tempo che l’im-
presa richiede è lungo, ed io ho molte cose da spenderlo meglio,
volendo scrivere.