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della mia vita? La quale ora è tutta inutile; e s’io ne potessi spen- dere una metà gittando l’altra, mi sarei pure avvantaggiato non poco. Nè già posso aspirare a luoghi maggiori in tanta povertà di mezzi. Oltre che ottenuto come che sia l’arbitrio di me stesso, e venuto in parte dov’io potessi vedere e parlare, forse conse- guirei, non dignità nè ricchezze nè cose tali che non ho mai nè sperato nè curato, ma una tal condizione che la mia vita non fosse tutt’uno colla morte. Al vostro caro e pietoso invito rispondo ch’eccetto il caso di una provvisione, io non potrò mai veder cielo nè terra che non sia recanatese, prima di quell’accidente che la natura comanda ch’io tema, e che oltracciò, secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza; dico la morte di mio padre. Il quale non ha altro a cuore di tutto ciò che m’appartiene, fuor- ché lasciarmi vivere in quella stanza dov’io traggo tutta quanta la giornata, il mese, l’anno, contando i tocchi dell’oriuolo. Ma già mi vergogno di parlare si lungamente di me stesso. Il perchè l’abbia fatto, l’ho posto nel principio; vale a dire, acciò che il silenzio non paresse sconoscenza o noncuranza de’ vostri avvertimenti e dell’amor vostro. Delle profferte generose che mi fate di adoperarvi in vantaggio mio, vi rendo grazie con tutta l’anima. Vogliatemi bene: e s’io vi potrò mai stringer la mano e abbracciarvi, vedrete un uomo vinto ma non guasto dalla mala fortuna, e vinta la mente ma non il cuore, nè la facoltà degli affetti, sebbene illanguidita.

Il vostro tenero e devoto
Giacomo Leopardi
397. Di Angelo Mai.
Roma 14. Aprile 1821.

Sig.r Conte carissimo Non necessarie, attesa la di Lei fama; e poco utili, attesa la circo- stanza, riescono le molte lodi che io ho fatte del raro di Lei ingegno e vasta dottrina, sì prima che dopo la di Lei lettera. Non so dubitare