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Della compassione che mi concedete, quantunque rarissima in questo mondo, e verso me quasi unica, non vi ringrazio, per- chè qual ringraziamento è pari alla virtù? Mi confortate amo- rosamente ch’io non mi lasci vincere dalla tristezza, e mi rico- veri nella sapienza. Conte mio, fu detto con verità che quegli che non è stato infelice non sa nulla; ma è parimente vero che l’infelice non può nulla: e non per altro io credo che il Tasso sieda piuttosto sotto che a fianco de’ tre sommi nostri poeti, se non perch’egli fu sempre infelicissimo. Tutti i beni di que- sto mondo sono inganni. Ma dunque togliete questi inganni: che bene ci resta? dove ci ripariamo? che cosa è la sapienza? che altro c’insegna fuorché la nostra infelicità? In sostanza il felice non è felice, ma il misero è veramente misero, per molto che la sapienza anche più misera s’adopri di consolarlo. Era un tempo ch’io mi fidava della virtù, e dispregiava la fortuna: ora dopo lunghissima battaglia son domo, e disteso per terra, per- chè mi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tristezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho cono- sciuto anche la tristezza e vanità della sapienza. Le corti, Roma, il Vaticano? Chi non conosce quel covile della superstizione, dell’ignoranza e de’ vizi? Ma presso a poco tutto il mondo è purgatorio. Questo è proprio inferno, dove bisogna che l’uomo guardi bene di non mostrare che sappia leg- gere; dove non si discorre d’altra materia che di nuvolo e di sereno, o vero di donne colle parole delle taverne e de’ bordelli; dove per l’una parte non resta all’uomo di senno altra occupa- zione che gli studi, altro riposo che gli studi, e per l’altra parte manca agli studi anche la speranza della gloria, ultimo inganno del sapiente. Perchè volendo comporre, lascio che i concetti e le voci dello sciagurato rassomigliano allo strido sempre unisono degli uccelli notturni, ma in questa mia condizione manca l’in- tento e il frutto dello scrivere, non potendo primieramente stam- pare, nè stampando divulgare. Professore vi scrissi nel modo che mi scrivevano da Roma. Ancor io l’interpretava scrittore, e non m’ingannava, secondo quello che voi m’avvisate. Uffizio vile: ma qual cosa è più vile