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392. A Giulio Perticar!.
Recanati 30 Marzo 1821.

Sig. Conte Stimatissimo e Carissimo E dura cosa il domandare, e peggio a chi niente ci deve, anzi di molto ci è creditore. Ma dall’una parte la vostra squisita beni- gnità, dall’altra la disperazione della mia vita mi fanno forza ch’io vi domandi e vi preghi, anzi vi supplichi. E prima di tutto vi chiedo perdono della rozzezza di questo mio scrivere, per- chè la tristezza dell’animo, e l’angustia delle cose non mi lasciano tempo nè spazio alla considerazione delle parole. Io credo che voi sappiate (per la bontà che avete usata d’in- formarvi delle cose mie) che dall’età di dieci anni, senz’altro aiuto che l’ignoranza di chiunque ha mai conversato meco, il contrario esempio de’ miei cittadini, e la noncuranza di tutti, io mi diedi furiosamente agli studi, e in questi ho consumata la miglior parte della vita umana. Ma forse non sapete che degli studi non ho raccolto finora altro frutto che il dolore. La debo- lezza del corpo; la malinconia profondissima e perpetua dell’a- nimo; il dispregio e gli scherni di tutti i miei cittadini; e per ultimo, il solo conforto che mi restasse, dico l’immaginazione, e le facoltà del cuore, anch’esse poco meno che spente col vigore del corpo e colla speranza di qualunque felicità; questi sono i premi che ho conseguiti colle mie sventuratissime fatiche. La fortuna ha condannato la mia vita a mancare di gioventù: per- chè dalla fanciullezza io sono passato alla vecchiezza di salto, anzi alla decrepitezza sì del corpo come dell’animo. Non ho mai provato da che nacqui un diletto solo; la speranza alcuni anni; da molto in qua neppur questa. E la mia vita esteriore ed inte- riore è tale, che sognandola solamente, agghiaccerebbe gli uomini di paura. I miei genitori i quali vedono ch’io mi consumo e distruggo in questa prigione, e che vivendo sempre sepolto in un paese, dove non è conosciuto neanche il nome delle lettere, se avessi