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287. A Pietro Giordani.
Recanati 6 marzo 1820

Mio carissimo. Dopo i 10 di Xbre io ti ho scritto costà due lettere invano: della terza non so, perchè ai 15 di febb.0 quando mi scrivesti l’ultima volta, non ti poteva essere arrivata. Sto anch’io sospirando caldamente la bella primavera come l’unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell’ani- mo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel rag- gio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaia- vano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel mo- mento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiac- ciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immagina- zione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si com- poneva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza eterna e sovrana dell’amore è annullata a rispetto mio nell’età in cui mi trovo. Intanto io ti 10 questi racconti che non farei a verun altro, in quanto mi rendo certo che non gli avrai per romanzeschi, sapendo com’io dete- sti sopra ogni cosa la maledetta affettazione corruttrice di tutto 11 bello di questo mondo, e che tu sei la sola persona che mi possa intendere, e perciò non potendo con altri, discorro con le di questi miei sentimenti, che p[er] la prima volta non chiamo vani. Perchè questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza