Poco sento ora i miei travagli, poiché intendo che i tuoi sono
alquanto scemati. Vedi più che puoi di darmi sempre nuove
migliori. Puoi pensare che i 6 canti dell’Arici nè gli ho io, nè
si trovano qui, dove non si sa neppure chi sia questo Arici;
nè quando si trovassero, io ne potrei far niente, essendo inetto
a ogni lettura. Lo stesso dico dell’opera del Monti, e non solo
del 3 volume, ma di tutti i passati de’ quali nessun Recanatese
ha veduto il frontispizio. Al Perticari scrissi spontaneamente
questo febbraio coll’occasione dei pochi versi che pubblicai. Un
mese dopo mi rispose molto amorevolmente, e credei d’averlo
acquistato per amico. M’invitava a replicare, e così feci; nè
vedendo risposta, dopo un mese e mezzo riscrissi, e parimente
invano. Da quel tempo non l’ho più voluto infastidire. Son tor-
nato a scrivere al Montani a Varese, p[er] vedere se le poste
si scordassero di mandare a male qualche mia lettera.
Io fuggiva di qua p[er] sempre, e m’hanno scoperto. Non è
piaciuto a Dio che usassero la forza: hanno usato le preghiere
e il dolore. Non ispero più niente, benché m’abbiano promesso
molto: ma io confidava in me solo, e ora che son tolto a me
stesso non confido in veruno. A Carlo rimangono le stesse spe-
ranze, forse anche minori, p[er]chè in lui non hanno ancora cono-
sciuta una disperazione capace di risolversi in qualche fatto
dispiacevole. Ma poco staranno ad avvedersene.
Se ti piace, salutami caramente il nostro Mai. Dammi nuove
di te, massimamente de’ tuoi pensieri, e della salute come ti
senta. Paolina e Carlo ti pregano ogni cagione d’allegrezza. Io
sono quello che sarò sempre il tuo principalissimo ammiratore,
e più che vo conoscendo gli uomini e gli studiosi, più ti ammiro e
ti pregio, e t’amo come cosa carissima e ch’io non meritava,
se non forse p[er] questo stesso amore che nessuno al mondo
può superare. Addio. Voglimi bene.