Recanati 30. Maggio [1817] |
Signore mio carissimo. L’erudizione che Ella ha trovato nelle
note all’Inno a Nettuno, in verità è molto volgare, e a me è
paruto di scrivere quelle note in Italia, ma in Germania o in
Inghilterra me ne sarei vergognato. Io sono andato un pezzo
in traccia della erudizione più pellegrina e recondita, e dai 13
anni ai 17 ho dato dentro a questo studio profondamente tanto
che ho scritto da sei o sette tomi non piccoli sopra cosa erudite
(la qual fatica appunto è quella che mi ha rovinato) e qualche
Letterato straniero che è in Roma e che io non conosco,1
veduto alcuno degli scritti miei, non li disapprovava, e mi facea
esortare a divenire, diceva egli, gran filologo. E un anno e mezzo
che io quasi senza avvedermene mi son dato alle lettere belle che
prima non curava, e tutte le cose mie che Ella ha vedute ed
altre che non ha vedute sono state fatte in questo tempo, sì che
avendo sempre badato ai rami, non ho fatto come la quercia
che «a vieppiù radicarsi il succo gira, per poi schernir d’austro
e di borea Tonte»2 a fare il che mi sono adesso rivolto tutto.
E l’Inno però e le note col resto, l’ho scritto appunto un anno
fa: in questi mesi non avrei potuto reggere a quella fatica. Da
questo Ella vedrà, se non l’ha già veduto, che quanto io spac-
cio della scoperta dell’Inno, è una novella. Innamorato della poe-
sia greca, volli fare come Michel Angelo che sotterrò il suo
Cupido, e a chi dissolierrato lo credea d’antico, portò il brac-
cio mancante.5 E mi scordava che se egli era Michel Angelo io
sono Calandrino; oltreché la stretta necessità d’imitare, o meglio
di copiare e di rimuovere dal componimento l’aria di robusto
e originale, perchè come un velo rado rado, anzi una rete soprap-
posta airimmaginario testo, ne lasciasse vedere tutti i muscoli
e i lineamenti e in somma lo lasciasse pressoché nudo a fine d’in-
gannare, m’impastoiò e rallentò p[er] modo la mente, che senza
dubbio io ho fatto tutt’altro che poesia. Avrei caro di sapere