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isocrate - preambolo del volgarizzatore 123

favelle, anco disparatissime dalla tedesca, non possono essere di bello stile tedesco.

Tutte le altre nazioni (intendo in questo discorso di parlare specialmente degli scritti in prosa) hanno piuttosto difetto che raritá di buoni e veri volgarizzamenti di libri antichi; non per incapacitá delle loro lingue, come i francesi, ma per poco studio e poca opera posta dagl’ingegni dintorno a sì fatto genere, o poca loro sufficienza a trattarlo. Certo, fuori della tedesca, niuna lingua moderna è piú capace che la nostra di traduzioni perfette, o almeno eccellentissime, da qual si sia favella del mondo, ma dal latino e dal greco massimamente. Contuttociò, in questo particolare delle traduzioni, noi ci troviamo essere piú poveri eziandio che gli altri. E ristringendoci ora a dire dei libri greci e latini, parrebbe che in quel secolo nel quale piú che in alcun altro fiorirono tra noi lo studio sì di queste due lingue e sì della propria italiana, voglio dire nel cinquecento, i nostri migliori ingegni avessero temuto, e perciò schifato, di tentare con volgarizzamenti le opere degli antichi di maggior conto. Le quali in quel secolo furono per veritá recate nella nostra lingua quasi tutte, ma le piú da uomini insufficienti e di poco valore. Ben si leggono con diletto, a cagion di esempio, le cose di Seneca e di Boezio volgarizzate dal Varchi, e quelle di Aristotele, del Nazianzeno, di san Cipriano dal Caro, e sono di ottimo stile e sì spedito e libero, che paiono anzi scritture originali che traduzioni. La qual cosa, dopo il cinquecento, mai nessuno italiano, volgarizzando in prosa, non ha potuto ottenere, se non forse Gasparo Gozzi. Ma né san Cipriano né il Nazianzeno né Aristotele nella Rettorica né Boezio né Seneca sono esempi di bello stile, e in questa parte i predetti volgarizzamenti vincono senza alcun dubbio i dettati primitivi. Onde è molto da dolersi che questi e simili ingegni di quell’etá, contenti di quasi trastullarsi con tali scrittori di basso affare, si astenessero dal provarsi coi grandi e coi principali. Lascio stare il Livio del Nardi e il Tacito del Davanzati, ingegni ambedue non ordinari, ma dei quali al primo, come che ciò si fosse e per qual cagione,