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LA SCOMMESSA DI PROMETEO
L’anno ottocento trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della cittá e dei borghi d’Ipernèfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli dèi maggiori e minori, e gli altri abitanti della detta cittá, che recentemente o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi che per la sua nota povertá non si poteva dimostrare cosí liberale come avrebbe voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato piú bello o piú fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in capo il dí e la notte, privatamente e pubblicamente, in cittá e fuori; e poter essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia, col segno di quella corona dintorno al capo.
Concorsero a questo premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatori d’Ipernèfelo, che a quelli di altre cittá; senza alcun desiderio di quella corona, la quale in sé non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano, si può congetturare che stima ne facciano gli dèi, tanto piú sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto, con