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I

Le Operette morali, nella edizione dello Starita, ordinata e diretta dal Leopardi medesimo, succedevano ai Canti e dovevan comprendere i volumetti II e III della raccolta delle Opere, questo solo è sicuro; che cosa egli avrebbe dato nei tre o piú successivi non è, come ho detto, ormai possibile indovinare.

Nel 1827, a Milano, la censura austriaca aveva lasciato passar le Operette, nel 1834 la toscana s’era accontentata di una anodina dichiarazione; piú zelante o piú intelligente, la censura borbonica volle a dirittura sopprimere il libro.

Quando, dieci anni dopo, riuscí al Ranieri di dare finalmente quelle Opere, egli asseverò nel frontispizio: «edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo gli ultimi intendimenti dell’autore». E se il Leopardi era giunto a fantasticare qualche altro editore italiano, potrá essere; ma l’edizione cui volse le ultime cure fu quella per la quale trattava, a mezzo del De Sinner, col Baudry.

E in questa sappiamo di certo intanto che non avrebbe compreso le traduzioni dal greco, le quali fuori d’Italia non avrebbero potuto avere interesse alcuno. Tanto meno è credibile vi avrebbe compreso quella esercitazione stilistica che è il finto volgarizzamento del Martirio de’ santi padri ecc. la quale, se tra il Giordani e il padre Cesari, poteva avere squisito sapore di scherzo elegante di un conoscitore finissimo della lingua e dello stile del trecento, in Francia nessuno avrebbe gustata.

Non ripeterò che il Ranieri affermasse cose inesatte; questa per la sua edizione rimarrebbe la piú innocua delle sue inesattezze. Tanto si credeva compenetrato dello spirito del «sodale» che quel che gli passava pel capo gli pareva pensiero leopardiano; e dell’amico volle farsi vigile guardiano. E a ogni modo non importa ormai piú; dacché è invalso il poco discreto criterio di dar dei grandi non soltanto quegli scritti cui essi intendevano commendare la loro fama, ma «tutto» e spesso... anche piú.