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detti infelici: poveri, malati insanabili, ecc. ecc.). Ora io torno a dimandare qual cosa sia migliore, se il patire o il non patire. Certo il godere, fors’anche il godere e patire sarebbe meglio del semplice non patire (giacché la natura e l’amor proprio ci spinge e trasporta tanto verso il godere che ci è piú grato il godere e patire, del non essere e non patire, e non essendo, non poter godere); ma il godere non essendo possibile all’uomo, resta escluso necessariamente e per natura, da tutta la questione. E si conclude che, essendo all’uomo piú giovevole il non patire che il patire, e non potendo vivere senza patire, è materialmente vero e certo che l’assoluto non essere giova e conviene all’uomo piú dell’essere, e che l’essere nuoce precisamente all’uomo. E però chiunque vive (tolta la religione), vive per puro e formale error di calcolo: intendo il calcolo delle utilitá. Errore moltiplicato tante volte quanti sono gl’istanti della nostra vita, «in ciascuno de’quali noi preferiamo il vivere al non vivere». E lo preferiamo col fatto non meno che coll’intenzione, col desiderio e col discorso piú o meno espresso, piú o meno tacito e implicato della nostra mente. Effetto dell’amor proprio ingannato, come in tante altre cattive elezioni ch’egli fa, considerandole sotto l’aspetto di bene, e del massimo bene che gli convenga, in quelle tali circostanze.

Che poi l’uomo debba esser certo di non passar giorno senza patimento, il che potrebbe parere una parte non abbastanza provata in questo mio ragionamento, lasciando stare i mali e i dolori accidentali, che intervengono inevitabilmente a tutti gli uomini, si dimostra anche dalla medesima proposizione la quale afferma che l’uomo dev’esser certo di non provar piacere alcuno in sua vita. Perocché l’assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende, come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella Teoria del piacere); perocché l’uomo e il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicitá, senza patire e senza infelicitá. E tra la felicitá e l’infelicitá non v’è condizione di mezzo. Quello è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell’animale. Non ottenendolo, l’animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti nei quali, desiderando il detto fine, ossia la felicitá, infinitamente come