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dialogo di plotino e di profirio | 205 |
che si trascorra a lagrime smoderate, od atti non degni della stabilitá di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della condizione umana. Ma questa fortezza d’animo si vuole usare in quegli accidenti tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare, non abusarla in privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a sentire di sí fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici è di non curante d’altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilitá propria; si gitta, per cosí dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che, in questa azione del privarsi di vita, apparisce il piú schietto, il piú sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamitá straordinarie, o dolori acerbi del corpo, non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo che l’uomo, in quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla. Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa, non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli anni che fin qui è durata l’amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con tutta l’anima: a me, che non ho persona piú cara, né compagnia piú dolce. Vogli piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosí, senza altro pensiero di noi, metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio,