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dialogo di plotino e di profirio | 203 |
del loro stato, e fastidio di tutte le cose, e desiderassero
di morire. Perché essendo eglino in sulla cima di quella che
chiamasi felicitá umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno
forse, di quelli che si domandano beni della vita (poiché
li posseggono tutti); non si possono promettere migliore
il domani che il giorno d’oggi. E sempre il presente, per fortunato
che sia, è tristo e inamabile; solo il futuro può piacere.
Ma come che sia di ciò, in fine noi possiamo conoscere che
(eccetto il timor delle cose di un altro mondo) quello che ritiene
gli uomini che non abbandonino la vita spontaneamente; e quel
che gl’induce ad amarla, e a preferirla alla morte, non è altro
che un semplice e un manifestissimo errore, per dir cosí, di
computo e di misura: cioè un errore che si fa nel computare,
nel misurare, e nel paragonar tra loro, gli utili o i danni. Il
quale errore ha luogo, si potrebbe dire, altrettante volte, quanti
sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la vita, ovvero
acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla
volontá, o sia col fatto solo.
Plotino. Cosí è veramente, Porfirio mio. Ma con tutto questo, lascia ch’io ti consigli, ed anche sopporta che ti preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e dell’universo; la quale, se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coll’ingegno proprio, colla curiositá incessabile e smisurata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicitá con occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande l’alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrá essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo: veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di