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dialogo di timandro e di eleandro | 175 |
profitto che se ne possa cavare e l’unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all’infelicitá umana. Ma non potendovisi riparare, con nessuna forza, nessun’arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai piú degno dell’uomo e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni, che il mettermene a sospirare, lacrimare e stridere insieme con gli altri, o incitandoli a fare altrettanto. In ultimo mi resta a dire che io desidero quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere intera e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo d’intraprendere cosa alcuna per veder di ridurle ad effetto. E ben sapete che l’uomo non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli succedere; e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con poca forza; e che scrivendo in modo diverso o contrario all’opinione propria, se questa fosse anco falsa, non si fa mai cosa degna di considerazione.
Timandro. Ma bisogna ben riformare il giudizio proprio, quando sia diverso dal vero; come è il vostro.
Eleandro. Io giudico quanto a me di essere infelice; e in questo so che non m’inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo secoloro con tutta l’anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall’infelicitá, prima ch’io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di sé me ne rallegro similmente.
Timandro. Tutti siamo infelici; e tutti sono stati; e credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza sia delle piú nuove. Ma la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come è giá migliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non ricordarvi, o non volervi ricordare, che l’uomo è perfettibile.