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174 operette morali


scrivendo e parlando, certe qualitá umane che ciascun sa che oramai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici, adorati giá lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi gli nomina, e da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti, non mi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo, senza ingannare l’un l’altro, e conoscendosi ottimamente tra loro, mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno piú a loro agio. Perché pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre rappresentare una persona diversissima dalla propria, non si può fare senza impaccio e fastidio grande. Se gli uomini dello stato primitivo, solitario e silvestre, fossero passati alla civiltá moderna in un tratto e non per gradi; crediamo noi che si troverebbero nelle lingue i nomi delle cose dette dianzi, non che nelle nazioni l’uso di ripetergli a ogni poco e di farvi mille ragionamenti sopra? In veritá quest’uso mi par come una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono per virtú della consuetudine. Ma io, che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell’uso; e scrivo in lingua moderna e non dei tempi troiani. In secondo luogo: non tanto io cerco mordere ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia piú manifesta e palpabile che l’infelicitá necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicitá non è vera, tutto è falso; e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire: io patisco? Ma se mi dolessi piangendo (e questa si è la terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli altri e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l’unico