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dialogo di timandro e di eleandro | 173 |
cittadini del pericolo, e confortati a provvedervi. Alcuni dicono che Timone non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza umana. Io non odio né gli uomini né le fiere.
Timandro. Ma né anche amate nessuno.
Eleandro. Sentite, amico mio. Sono nato ad amare; ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in etá naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessitá di natura; e il meno che mi è possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio.
Timandro. Non ve lo nego.
Eleandro. Di modo che io non lascio di procurare agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il rispetto proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire.
Timandro. Ma confessate voi formalmente, di non amare né anche la nostra specie in comune?
Eleandro. Sí, formalmente. Ma come tuttavia, se toccasse a me. farei punire i colpevoli, sebbene io non gli odio; cosí, se potessi, farei qualunque maggior benefizio alla mia specie, ancorché io non l’ami.
Timandro. Bene, sia cosí. Ma in fine, se non vi muovono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere?
Eleandro. Diverse cose. Prima, l’intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione: alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perché spesso parlo per necessitá, ma non sono mai costretto a scrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, non mi darebbe un gran sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi si ridono di chi scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e pochi la intendono. Io non veggo come non sia parimente ridicolo questo continuo presupporre che si fa