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116 | operette morali |
Morto. Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch. Dunque che è cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto. Poco fa sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell’anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giú nel fondo del mare, sotto la neve e la rena, a cielo aperto, e in qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come noi quella canzoncina che hai sentita.
Ruysch. E quanto dureranno a cantare o a parlare?
Morto. Di cantare hanno giá finito. Di parlare hanno facoltá per un quarto d’ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiate a rompere il sonno un’altra volta. Parlate pure insieme liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per curiositá, senza disturbarvi.
Morto. Non possiamo parlare altrimenti, che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta.
Ruysch. Mi dispiace veramente: perché m’immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi, se poteste parlare insieme.
Morto. Quando anche potessimo, non sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch. Mille domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di corpo e d’animo nel punto della morte.
Morto. Del punto proprio della morte, io non me ne accorsi.
Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch. Come non ve n’accorgeste?