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xv. il sogno | 55 |
de’ nostri affanni. Or se di pianto il ciglio,
soggiunsi, e di pallor velato il viso
60per la tua dipartita, e se d’angoscia
porto gravido il cor; dimmi: d’amore
favilla alcuna, o di pietá, giammai
verso il misero amante il cor t’assalse
mentre vivesti? Io disperando allora
65e sperando traea le notti e i giorni;
oggi nel vano dubitar si stanca
la mente mia. Che se una volta sola
dolor ti strinse di mia negra vita,
non mel celar, ti prego, e mi soccorra
70la rimembranza or che il futuro è tolto
ai nostri giorni. E quella: ti conforta,
o sventurato. Io di pietade avara
non ti fui mentre vissi, ed or non sono,
che fui misera anch’io. Non far querela
75di questa infelicissima fanciulla.
Per le sventure nostre, e per l’amore
che mi strugge, esclamai; per lo diletto
nome di giovanezza e la perduta
speme dei nostri dí, concedi, o cara,
80che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto
soave e tristo, la porgeva. Or mentre
di baci la ricopro, e d’affannosa
dolcezza palpitando all’anelante
seno la stringo, di sudore il volto
85ferveva e il petto, nelle fauci stava
la voce, al guardo traballava il giorno.
Quando colei teneramente affissi
gli occhi negli occhi miei, giá scordi, o caro,
disse, che di beltá son fatta ignuda?
90E tu d’amore, o sfortunato, indarno
ti scaldi e fremi. Or finalmente addio.
Nostre misere menti e nostre salme
son disgiunte in eterno. A me non vivi