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26 | canti |
guidò de’ Medi fuggitivi e stanchi
nelle pallide torme; onde sonaro
25di sconsolato grido
l’alto sen dell’Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
della virtú nativa
le riposte faville? e che del fioco
30spirto vital negli egri petti avviva
il caduco fervor? Le meste rote
da poi che Febo instiga, altro che gioco
son l’opre de’ mortali? ed è men vano
della menzogna il vero? A noi di lieti
35inganni e di felici ombre soccorse
natura stessa: e lá dove l’insano
costume ai forti errori esca non porse,
negli ozi oscuri e nudi
mutò la gente i gloriosi studi.
40Tempo forse verrá ch’alle ruine
delle italiche moli
insultino gli armenti, e che l’aratro
sentano i sette colli; e pochi Soli
forse fien volti, e le cittá latine
45abiterá la cauta volpe, e l’atro
bosco mormorerá fra le alte mura;
se la funesta delle patrie cose
obblivion dalle perverse menti
non isgombrano i fati, e la matura
50clade non torce dalle abbiette genti
il ciel fatto cortese
dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
sopravviver ti doglia.
55Chiaro per lei stato saresti allora