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xxxix. spento il diurno raggio... | 147 |
Ecco turbar la notte, e farsi oscura
la sembianza del ciel, ch’era sí bella,
30e il piacere in colei farsi paura.
Un nugol torbo, padre di procella,
sorgea di dietro ai monti, e crescea tanto,
che piú non si scopria luna né stella.
Spiegarsi ella il vedea per ogni canto,
35e salir su per l’aria a poco a poco,
e far sovra il suo capo a quella ammanto.
Veniva il poco lume ognor piú fioco;
e intanto al bosco si destava il vento,
al bosco lá del dilettoso loco.
40E si fea piú gagliardo ogni momento,
tal che a forza era desto e svolazzava
tra le frondi ogni augel per lo spavento.
E la nube, crescendo, in giú calava
ver la marina sí, che l’un suo lembo
45toccava i monti, e l’altro il mar toccava.
Giá tutto a cieca oscuritade in grembo,
s’incominciava udir fremer la pioggia,
e il suon cresceva all’appressar del nembo.
Dentro le nubi in paurosa foggia
50guizzavan lampi, e la fean batter gli occhi;
e n’era il terren tristo, e l’aria roggia.
Discior sentia la misera i ginocchi;
e giá muggiva il tuon simile al metro
di torrente che d’alto in giú trabocchi.
55Talvolta ella ristava, e l’aer tetro
guardava sbigottita, e poi correa,
sí che i panni e le chiome ivano addietro.
E il duro vento col petto rompea,
che gocce fredde giú per l’aria nera
60in sul volto soffiando le spingea.
E il tuon veniale incontro come fera,
rugghiando orribilmente e senza posa;
e cresceva la pioggia e la bufera.