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della maggior parte degli uomini e delle vicende del mondo, s’interessava assai mediocremente — per non dire affatto — (e lo prova il silenzio eloquente de’ suoi manoscritti), alla torbida vita politica piena d’ipocrisie sottili e di violenze feroci che gli ferveva intorno; l’osservava da presso, certo acutamente, ma il suo spirito indagatore non vi s’indugiava, tutto assorto com’era nella calma contemplazione della natura e nelle sue visioni di verità e di bellezza1.

Un particolarissimo interesse hanno, dunque, i cenni o gli schizzi che lo possono mostrare — sia pure per ordine del suo signore — intento a immaginare allegorie politiche.

Incominciamo dalle poche note (per affreschi o per rappresentazioni teatrali?) che si riferiscono indubbiamente alla Corte milanese. Esse sono già state rilevate da tempo dagli studiosi.

«Il Moro — annota Leonardo — in figura di Ventura colli capelli e panni e mani innanzi. E messer Gualtieri (Gualtieri de’ Bottapetri, tesoriere ducale), con riverente atto lo pigli per li panni da basso, venendoli dalla parte dinanzi»2.

Qui più che d’un’allegoria — notiamo — si tratta d’una rappresentazione con qualche particolare simbolico, come nella miniatura già accennata della storia di F. Sforza; in essa Messer Gualtieri e il Moro sarebbero stati ritratti al naturale, a imperituro ricordo e glorificazione della munificenza del Principe.

Questa rappresentazione è ben distinta, e (curioso!) nessuno fin qui l’ha notato, da quest’altra che segue immediatamente nel manoscritto leonardesco:

  1. «Che potrò io dire — prorompe una volta uscendo dal suo riserbo usuale — cosa più scellerata di quelli che levano le lalde al cielo di quelli che con più ardore han nociuto alla patria e alla spezie umana?» Cod. Atl. 382 r. Egli pensava certo, così scrivendo, ai guerrieri e agli uomini politici, che la moltitudine feticcia inchina e glorifica.
  2. Manoscritto J., 138 v.