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vita di leonardo da vinci xi

opera rimanendo così per finita, è stata dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e dagli altri forestieri ancora; atteso che Lionardo s’imaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli, di voler sapere chi tradiva il loro maestro. Per il che si vede nel viso di tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non potere intendere lo animo di Cristo: la qual cosa non arreca minor maraviglia, che il conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e ’l tradimento in Giuda; senza che ogni minima parte dell’opera mostra una incredibile diligenzia; avvengachè insino nella tovaglia è contraffatto l’opera del tessuto d’una maniera, che la rensa stessa non mostra il vero meglio.

Dicesi che il priore di quel luogo sollecitava molto importunamente Lionardo che finissi l’opera, parendogli strano veder talora Lionardo starsi un mezzo giorno per volta astratto in considerazione; ed arebbe voluto, come faceva dell’opere che zappavano nell’orto, che egli non avesse mai fermo il pennello; e non gli bastando questo, se ne dolse col duca, e tanto lo rinfocolò, che fu costretto a mandar per Lionardo, e destramente sollecitarli l’opera; mostrando con buon modo, che tutto faceva per l’importunità del priore. Lionardo, conoscendo l’ingegno di quel principe esser acuto e discreto, volse (quel che non avea mai fatto con quel priore) discorrere col duca largamente sopra di questo: gli ragionò assai dell’arte, e lo fece capace che gl’ingegni elevati talor che manco lavorano, più adoperano; cercando con la mente l’invenzioni, e formandosi quelle perfette idee, che poi esprimono e ritraggono le mani da quelle già concepute nell’intelletto. E gli soggiunse che ancor gli mancava due teste da fare: quella di Cristo, della quale non voleva cercare in terra e non poteva tanto pensare, che nella imaginazione gli paresse poter concepire quella bellezza e celeste grazia, che dovette essere quella della divinità incarnata. Gli mancava poi quella di Giuda, che anco gli metteva pensiero, non credendo potersi imaginare una forma da esprimere il volto di colui, che dopo tanti benefizj ricevuti avessi avuto l’animo sì fiero, che si fussi risoluto di tradire il suo signore e creator del mondo; pur, che di questa seconda ne cercherebbe, ma che alla fine, non trovando meglio, non gli mancherebbe quella di quel priore tanto


    di quelle perfezioni che egli concepiva colla mente, ma che alla mano non era dato l’aggiungere. — * E Leonardo, dice il Lomazzo, non potè penetrare tanto oltre coll’intelletto, da conseguire questa deità nel Cristo del Cenacolo. È falso che i disegni delle tredici teste degli apostoli fossero un tempo nell’Ambrosiana. Il Pino dice che dal conte Arconati passarono al marchese Gasnedi. Poi li ebbe la famiglia Sagredo di Venezia, dalla quale li comprò il console inglese Uduny. Sembra che questi li legasse a due pittori inglesi, onde si divisero in due parti: l’una di dieci, di tre l’altra, che andò in mano di una dama inglese. Gli altri li comperò sir Tommaso Lawrence; e alla morte sua furono acquistati dal mercante di cose d’arte Woodburn. In fine, passarono nella raccolta del re d’Olanda all’Aia; e nella vendita che di quella quadreria fu fatta all’asta pubblica nell’agosto del 1850, furono rilasciati per 17,200 franchi. Questi cartoni sono fatti a pastello; il che riscontra con ciò che ne scrive il Lomazzo nel cap. v del lib. III del suo Trattato della pittura, dove dice: «.....fu molto usato (il colorire a pastello) da Leonardo Vinci, il quale fece le teste di Cristo e degli apostoli a questo modo eccellenti e miracolose, in carta». Gli apostoli sono: 1o sant’Andrea, 2o san Matteo, 3o san Giacomo, 4o san Filippo e san Taddeo, 5o san Pietro e Giuda, 6o san Giovanni Evangelista, 7o san Bartolommeo e san Tommaso, 8o Giuda Iscariote. II disegno originale di tutto il dipinto si vede nella raccolta del museo di Parigi. I primi e leggieri schizzi li possiede l’Accademia di Venezia.