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FUSI E FILA | 77 |
un lievissimo sorriso che rivelò a don Aurelio il suo fallo.
«Ah! sì, bene, mio Dio, che sciocchezze!» diss’egli, rispondendo, con un riso quasi di compassione, a parole non dette. «Io parlo semplice, bisogna intendere!»
Il signor Marcello chiamò tutti al terrazzo per vedere un effetto di nubi temporalesche. A settentrione il sole batteva le cime di Rotzo in Val d’Astico, dorate nel limpido azzurro; e il ciglio dello stesso altipiano era sfolgorato a levante da un continuo lampeggiar muto del cielo turchino. Lelia corse al richiamo, avida, fingendo dimenticare che non aveva servito ancora il caffè ad Alberti. Quando, un momento dopo, questi e don Aurelio uscirono pure sul terrazzo, ella se ne ritrasse, scivolò nella sala da pranzo, fino alla soglia dell’uscita in giardino. I temporali le mettevano nei nervi un tripudio folle. Allora voleva esser sola a goderne, a risponder loro come un’altra piccola nube satura di elettrico. Se il vento avesse soffiato, sarebbe corsa fuori a ogni patto, come faceva qualchevolta la notte sciogliendosi i capelli. Poichè non si moveva foglia e udì il signor Marcello domandar di lei, ritornò sul terrazzo.
«Il caffè, cara?» disse il vecchio. «Alberti e io non l’abbiamo avuto.»
Ella si scusò. Nel servire Massimo non fu propriamente sgarbata; però qualchecosa di poco gentile nel suo viso e nei suoi atti ci fu. Don Aurelio, che mansuetamente ma finemente notava, pensò, nel suo ingegnoso ottimismo, che la memoria del fidanzato non fosse più tanto viva nel cuore di lei s’ella si mostrava tale verso il suo amico prediletto.
«Lei,» disse ex abruptoil signor Marcello, rivolgendosi a Massimo «quel Benedetto di Subiaco, dove lo ha conosciuto?»
«A Jenne.»