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FUSI E FILA 69

padroni, nè domestici. Vide da lontano, verso la scuderia, Teresina che parlava con un signore. Seppe da lei più tardi che quel signore era il medico del paese, il quale non aveva creduto opportuno di visitare il signor Marcello fino a che non se ne trovasse un pretesto. Salì nella sua camera e, guardato a lungo il ritratto di Andrea, cambiò riguardosamente, quasi con rispetto, l’acqua del vaso alla rosa che pendeva più curva, più languida, tocca nell’esterno dai primi lividori della morte. Rilesse le sue lettere al perduto amico, ancora più avvizzite del fiore. Stava contemplando dalla finestra, senza pensiero, la festa del sole, del vento, delle cose vive esortanti a vivere, quando udì un camminar pesante nel corridoio, un lieve spingere dell’uscio. Era il signor Marcello, che, vedendolo, mise un’esclamazione di scusa.

«Non sapevo che fosse rientrato» diss’egli.

Teneva in mano una rosa fresca, una magnifica rosa, bianca come l’altra. Si guardarono, s’intesero cogli occhi, in silenzio. Massimo prese, commosso, la rosa e il signor Marcello si ritirò.

Verso le undici e mezzo, mentre Massimo stava scrivendo lettere, Giovanni venne a pregarlo di scendere, da parte del padrone.

«È nel salone colla signorina» diss’egli.

Massimo pensò subito: — quale delle due vedrò? — e si avviò a discendere per la scala di legno.

Lelia sedeva alla scrivania posta per isghembo fra la grande vetrata e il camino a cappa, voltando le spalle alla scala. Ella fremeva di sentirsi tanto battere il cuore, non voleva confessare a sè stessa la curiosità ardente di vedere l’uomo che stava discendendo le scale, non avrebbe mosso il capo a guardarlo nè allora nè poi se lo avesse potuto fare senza taccia di pazza villania.

«Lelia» disse il signor Marcello, dolcemente.

Ella depose la penna, aperse il cassetto per posarvi