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FUSI E FILA | 61 |
«Gliela ho fata, vede. Glielo avevo deto. Gliela ho fata.»
Un altro sorso di caffè.
«A me? A voi l’avete fatta. Ma dove volete andare?»
Ancora un sorso, dopo il quale Carnesecca affondò lo sguardo indagatore nel liquido, con una eloquente contrazione delle labbra.
«Dove voglio andare?» diss’egli guardando ancora nel caffè di frumento. «Prima dal Sommo Sacerdote di Velo.»
«Questo lo proibisco!» esclamò don Aurelio.
«Vado con rispetto e mansuetudine» riprese placido Carnesecca «dal Sommo Sacerdote di Velo e gli dico: saziati di me, fammi crocifiggere, perchè questa è Gerusalemme, tu sei Caifasso e io sono il figlio dell’Agnello.»
Don Aurelio andò fuori dei gangheri:
«Non dite stupidità! È tutta una stupidità vostra quello che supponete! Non è vero niente! Voi ritornerete subito a casa mia!»
Il figlio dell’Agnello, colpito dal volto acceso e dall’accento furioso di Don Aurelio, lo guardò:
«Ben! — Ben! — Ben!» diss’egli, parlando a colpi di pistola. «Se non è vero, non vado. Ma piuttosto morire sul quel letamaio che ritornare da Lei! Domanderò asilo alla Dama bianca delle Rose, la quale...
«Calàpo!» gridò l’ostessa che aveva acciuffata la gallina e se la riportava fra le braccia. «Calàpo! Calàpo! Cosa feu, Calàpo?»
Calàpo, un omiciattolo tozzo, scamiciato e scalzo, che stava tirando una carrettella fuori della rimessa, vociò alla sua volta che attaccava l’asino per andare a Piovene. L’ostessa andò sulle furie.
«Gnente, gnente, ch’el ga i duluri el musso, bestiulo!»