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50 | CAPITOLO SECONDO |
tristezza. Non replicò niente, lì per lì. Solo quando don Aurelio entrò, avanti a lui, nel recinto dove, oltre una legnaia mezzo diroccata, è la povera casuccia del curato, mentre l’amico gli diceva il suo dispiacere di non averlo potuto alloggiare, lo trattenne, gli chiese, quasi angosciosamente, cosa non avesse approvato. In quel momento venne loro incontro donna Fedele. Don Aurelio fece le presentazioni, meravigliandosi prima e poi rallegrandosi di vedere i due sorriderne. Carnesecca stava benino; era però inquieto, domandava continuamente di don Aurelio. Don Aurelio non avrebbe voluto che lo si chiamasse Carnesecca; ma donna Fedele protestò vivacemente, alzando le sopracciglia e parlando, contro l’usato, frettolosa, di essere popolo e di voler esprimersi come il popolo.
«Vuole che lo chiami come lo chiama l’arciprete?» diss’ella. L’arciprete, scherzando sul nome Pestagran, lo chiamava Gran Peste. Don Aurelio diventò rosso. Non gli piaceva il nomignolo appioppato dall’arciprete a quel misero errante di buone intenzioni; ma neppure gli piaceva udir parlare dell’arciprete in tono di biasimo e d’ironia.
«Eccomi» diss’egli, entrando con Massimo dal fresco vivo della scala nella camera dell’infermo, in un’afa appestata di puzze farmaceutiche. Donna Fedele era rimasta fuori. Una vecchietta seduta accanto al letto dove la vecchia faccia raggrinzita di Carnesecca sporgeva giallognola, come un pugno di creta, fra il berretto da notte e la rimboccatura delle lenzuola, si alzò in piedi, giunse le mani, beata, esclamò:
«Oh sia lodato, ch’el xe qua!»
L’infermo alzò un poco il capo e il busto, puntellandosi sopra un gomito e alzando l’altro braccio a recar la mano, militarmente, al berretto da notte. Poi, volto alla vecchia, le disse, solenne: