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LA DAMA BIANCA DELLE ROSE | 487 |
Da quel momento donna Fedele si trasformò. La camera della Morte parve diventata la camera della convalescenza; tanto che per un istante i presenti dubitarono davvero di una misteriosa crisi benefica. Il primo segno ne fu questo che l’ammalata domandò a Massimo se avesse letto una lettera del sior Momi e accennò a Lelia di mostrargliela. Per accontentarla, Massimo si tenne davanti agli occhi, senza leggerne sillaba, il foglio dove il sior Momi accordava il suo consenso, protestando di voler restare un semplice agente e lasciar libera la Montanina perchè quell’aria non gli si confaceva. C’erano pure ossequi per Massimo e la preghiera di due righe sue che approvassero le disposizioni di Lelia quanto alla resa dei conti.
Poi donna Fedele domandò che i due giovani e don Aurelio le si avvicinassero.
«Sono stata cattiva coll’arciprete e col cappellano di Velo» diss’ella. «Fate loro sapere che ne ho dolore.»
«Sì sì, farò io, farò io» disse don Aurelio. Ella lo ringraziò con uno sguardo lungo, d’inesprimibile senso. E accennò che avrebbe voluto baciargli la mano.
Verso le tre si comprese, per l’agitarsi delle mani e l’inquietudine delle labbra, che voleva qualche cosa e che non poteva esprimersi.
Indicava collo sguardo un vaso di cristallo dove languivano ancora le rose del villino. La cugina Eufemia, postole l’orecchio alla bocca, vi colse il soffio di una parola inarticolata, domandò:
«Rose?»
L’inferma accennò di sì e le sue mani brancolarono sulle coltri. La cugina intese ch’ella volesse avere sul letto quelle rose, andò per levarle dal vaso. Donna Fedele accennò di no, di no. La povera Eufemia si tormentava di non capire. Massimo e Lelia capirono, non