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476 | CAPITOLO DECIMOSETTIMO |
tata di punti lucenti, passò a cinquanta metri, tagliando la rotta del battello. Pochi si avvidero di quell’ombra, del pericolo di uno scontro fra il battello della Morte e l’altro. Quei pochi rabbrividirono e tacquero. Ricominciò lo scroscio degli stantuffi, ricominciò il salmo. Nell’ampio bacino fra Campione e Lugano l’oscurità parve meno profonda intorno al chiarore funereo del ponte di prora. Da ogni parte nereggiavano sul cielo maestà di profili grandi. I lumi di Lugano disegnavano il giro del golfo. A misura che il battello avanzava verso Caprino, uscivano via via in vista della prora lumi di Castagnola, lumi di Gandria e finalmente le creste formidabili, le acque lontane della Valsolda, il saettar di lampi dalla torpediniera. Massimo prese il braccio di don Aurelio.
«Lei parla?» diss’egli.
Don Aurelio rispose di sì e in pari tempo intese, sentendosi trarre dal braccio del giovine, ch’egli voleva dirgli altro.
«Sono ritornato a Cristo e alla Chiesa» disse Massimo, tremando tutto. «Vi sono ritornato adesso.»
Don Aurelio lo abbracciò stretto, gli mormorò all’orecchio con voce piena di gioia: «caro, caro, ringraziamo Dio, mi hai tolto un gran peso dal cuore.»
Gli disse in seguito ch’era contento dei giovani venuti da Roma, che i traviamenti e le temperanze di certi novatori, il dispregio col quale parlavano di Benedetto, avean prodotto nell’animo loro una reazione salutare; tanto che se oramai non fosse stato troppo tardi, egli avrebbe preferito affidare a qualcuno di essi l’incarico del discorso.
Intanto il battello aveva oltrepassato Gandria. L’occhio abbagliante della torpediniera sfolgorò Massimo e don Aurelio che ritornarono a prora. Il fulgore balzava senza