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462 | CAPITOLO DECIMOSETTIMO |
un’aura di protezione materna era entrata nella casa, che rendeva la sedia di oggi più riposante del letto di ieri.
Verso le due ebbe paura di addormentarsi, si alzò pian piano, andò nella sua cameretta, si pose alla finestra per cacciare il sonno coll’aria fresca. Vide illuminata e aperta un’altra finestra dell’albergo. Là forse vegliava Massimo. Si ritrasse dal davanzale. Non avrebbe voluto, in quel momento, esserne veduta e vederlo, avere una comunicazione di amore. Ascoltò i sussurri della notte, qualche tocco dal lago placido, il salto di un pesce, qualche ululo di allocchi lontani; e ritornò alla sua sedia coll’idea che l’amore le si trasformava, che nel contatto di realtà dolorose prendeva un carattere di profondità, di gravità nuova.
Alle quattro udì donna Fedele domandare qualche cosa, la cugina scendere dal letto, urtare in una sedia, guaire; e donna Fedele ridere. Poi più niente fino alla mattina.
III.
Alle sei e mezzo, la cugina Eufemia ch’era uscita di camera, pian piano, alle sei, lasciando donna Fedele addormentata, spinse un poco l’uscio socchiuso, le vide gli occhi aperti, entrò.
«C’è il signor dottor Alberti» diss’ella.
Donna Fedele si voltò sul fianco, non senza pena, verso l’uscio, mormorò:
«Avanti.»
Massimo entrò di fretta, curvando un poco l’alta persona, premuroso nel viso e lieto.
«Che piacere!» diss’egli, un po’ per abitudine, un po’ per simulazione, pure sentendo che non erano le