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LA DAMA BIANCA DELLE ROSE 453

dimenticato di caricare l’orologio. Guardò un orario che le avevano posto in camera. Dovevano essere quasi le due e mezzo. Fece tosto cercare del solito ragazzo e si avviò rapidamente. In mezz’ora fu all’uscita di Cressogno verso la Caravina. Licenziò il ragazzo e procedette sola.

Aveva portato seco la lettera di Massimo e la rilesse camminando lentamente per la stradicciuola gentile che va piana fra gli ulivi e i vigneti della costa blanda, scendente al lago. A cento passi dai cipressi che fronteggiano il Santuario, alzò gli occhi, s’illuminò. Massimo le veniva incontro. Ella fu appena in tempo di levarsi il guanto della mano che porse a quelle avide di lui. Gli mostrò la lettera, gli disse, piano colle labbra, forte cogli occhi e con tutta la persona fremente:

«Grazie!»

Stettero un momento muti, per la commozione e anche per altra cosa. Ciascuno dei due sentiva che l’altro pensava la stessa ombra dello stesso cadavere. Ciascuno dei due sentiva che l’altro non sapeva se parlarne o no e come parlarne. Il reciproco imbarazzo fece che si rimettessero presto in cammino. Si avviarono a paro, silenziosi, verso il Santuario. Poichè egli taceva, Lelia sentì che toccava a lei di parlare.

«Lei è triste» disse piano. «Potrei fare qualche cosa perchè non lo fosse?»

«Cara» egli rispose impetuosamente come se null’altro avesse atteso, per effondersi, che una parola qualsiasi di lei, «vi sono espressioni nella mia lettera che rispondono male al mio pensiero. L’ho un poco sentito scrivendole e l’ho sentito molto più quando la lettera era già partita. Se avrò il Suo amore, se avrò l’anima Sua, non potrò sentire disprezzo per nessuno. Non potrò che sentire pietà per chi non può dire suoi un amore così, un’anima così. Vi sarà in me un onda di perdono e neppure una stilla di disprezzo.»